La Conferenza di Copenhagen (COP15)

Nel dicembre del 2009 Copenaghen è stato palco di uno degli eventi politico/mediatici più importanti degli ultimi tempi: la 15° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (COP15). Il fine dei negoziati era quello di stipulare un nuovo accordo internazionale che, in vista della scadenza del Protocollo di Kyoto nel 2012, stabilisse i nuovi impegni in tema di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Le aspettative sui risultati da raggiungere erano alte sebbene le divergenze durante gli accordi preparatori già preannunciavano il fallimento in cui poi realmente si incorse. Le premesse erano le seguenti: l’Unione Europea proponeva una strategia molto ambiziosa da realizzare entro il 2020, il c.d. progetto “20-20-20”, che comportava un calo delle emissioni del 20% rispetto ai livelli del 1990, un aumento dell’energia derivante da fonti rinnovabili tale da coprire il 20% del fabbisogno energetico interno dell’UE; una riduzione del 20% del consumo di energia grazie a misure dirette a renderlo più efficiente. Tanto gli Stati Uniti, poco inclini ad assumere standard così elevati, quanto Cina e Brasile, che non avrebbero accettato vincoli pari a quelli dei Paesi Industrializzati , si opposero alla proposta europea.

Quasi sul punto di concludere il Vertice con un nulla di fatto, l’ultimo giorno utile si finalizzò “l’Accordo di Copenhagen”: un documento in 12 punti, senza alcuna efficacia vincolante, il cui scopo è quello di limitare a 2 gradi l’aumento della temperatura media mondiale ma che elimina il riferimento al taglio del 50% per il 2050. Inoltre i Paesi Industrializzati si impegnano a stanziare per i primi tre anni 30 miliardi di dollari per finanziare azioni di contenimento del cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo e altri 100 miliardi da destinare ai Paesi in via di Sviluppo (PVS) e ai paesi più poveri, da impiegare nell’utilizzo delle energie pulite. Altri progetti dovrebbero essere supporti grazie all’istituzione del “Copenhagen Green Climate Fund”. Per quanto riguarda posizioni più specifiche dei maggiori Governi: gli Stati Uniti progettano un taglio delle emissioni di gas nocivi del 17% entro il 2020 ma tenendo come anno di riferimento il 2005, quindi il taglio è solo del 4% rispetto al 1990; l’UE si impegna formalmente ad una riduzione del 20-30% rispetto al 1990 e, infine, la Cina a diminuire del 40-45% l’intensità delle emissioni rispetto al Pil entro il 2020, ma rispetto il 2005.

Gli esiti della Conferenza di Copenhagen del 2009 sono stati fortemente criticati e si è molto parlato di “occasione persa per il Pianeta” e di “delusione delle aspettative”. I risultati del Vertice, caratterizzato fortemente dalle divergenze tra Usa e Cina, sono stati piuttosto blandi: l’accordo non è giuridicamente vincolante e gli Stati si sono limitatati a “prenderne atto” senza sottoscriverlo formalmente, gli impegni sono generici e alquanto vaghi, non si predispone un piano di attuazione specifico né un meccanismo di controllo. Quello dei cambiamenti climatici è una problematica che mette in luce la frattura della Comunità Internazionale, la quale ha dimostrato di essere frastagliata su posizioni molto discordati cui soggiacciono interessi nettamente diversi. Eppure il tema in questione è una preoccupazione globale le cui cause è sì vero che possono essere imputate maggiormente ad uno Stato piuttosto che ad un altro ma i cui effetti (disastrosi ed irreversibili) sono transfrontalieri e quindi universali.

C’è urgente necessità di lavorare per un nuovo accordo con cui gli Stati contraggano impegni vincolanti, concreti e con precise scadenze temporali al fine di sviluppare un nuovo piano globale basato sulla cooperazione e che distribuisca i doveri di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra in maniera equa e responsabile. Forse dalla Conferenza di Cancun (COP16) che si è tenuta in Messico lo scorso dicembre 2010 arrivano i primi segnali che la politica internazionale abbia imboccato una nuova direzione… forse!

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