La Conferenza di Nagoya (COP10)

L’Assemblea Generale dell’Onu con la Risoluzione 63/203 ha dichiarato il 2010 “Anno internazionale della Biodiversità”, a conclusione del quale si è tenuto a Nagoya, dal 18 al 29 ottobre del 2010 la 10° Conferenza delle Parti (COP-10) alla Convenzione per la Biodiversità (CDB). Scopo del Meeting quello di trovare le strategie più efficaci per bloccare il tasso di perdita della biodiversità ponendosi come obiettivo temporale il 2020. Dal 1970 ad oggi si registra un miglioramento dello stato della diversità biologica del 30% nelle zone temperate (grazie al controllo dell’inquinamento) ma un peggioramento nei Tropici. Inoltre le risorse che il Pianeta offre sono sfruttate in maniera sproporzionata rispetto alla capacità di riproduzione

della Terra; si aggravano così fenomeni già di per sé preoccupanti quali deforestazione, desertificazione, pesca selvaggia, consumo del suolo, la violazione dei diritti delle comunità indigene (biopirateria), commercio illegale di specie in via d’estinzione. Secondo il rapporto del Living Planet Index , se il ritmo con cui depauperiamo le fonti disponibili non verrà ridotto e non ci sarà una virata verso un utilizzo delle risorse più equilibrato e “sostenibile”, nel 2030 ci sarà bisogno di due Pianeti Terra per poter colmare lo squilibrio non solo ambientale ma anche economico cui si sta dando vita.

Logo International Year of Biodiversity

Per salvaguardare la diversità biologica i Ministri dell’Ambiente degli Stati Parte alla CDB hanno adottato Protocollo di Nagoya/ABS (Access and Benefit Sharing Protocol),

che prevede un Piano d’azione in venti punti, condiviso a livello globale e che per la prima volta, dopo ben 18 anni, riesce ad aggirare l’ostacolo che bloccava i lavori della CBD su un punto cruciale: l’accesso e la condivisione dei benefici derivati dalle risorse genetiche di animali, piante e microrganismi che sarà disciplinato tramite il regolamento ABS (Access and Benefit Sharing Protocol). Questo documento interessa soprattutto i Paesi in via di sviluppo perché regola la ripartizione dei profitti fatti dalle grandi multinazionali che usano risorse genetiche trovate in natura (l’esempio più noto è quello delle case farmaceutiche che ricavano medicinali da piante che sono parte per lo più del patrimonio naturale dei Paesi ricchi di biodiversità); si inizia quindi anche a regolamentare la biopirateria che consiste nel brevettare sostanze già note e utilizzate da sempre dalle popolazioni locali in quanto appartenenti ai loro “traditional knowledges”. Le Parti Contraenti si pongono come obiettivo principale quello di arrestare il sovrasfruttamento delle risorse marine, di proteggere il 10% delle aree marine costiere e d’alto mare; si aumenta dal 10% al 17% la protezione degli habitat terrestri, incremento che può apparire modesto ma che dovrà realizzarsi in tempi brevi, ovvero soli 10 anni. Si prevede anche la modifica dei “sussidi perversi” relativi a pesca, agricoltura e trasformazione del territorio, e l’integrazione del valore della biodiversità nella contabilità nazionali. Da un punto di vista finanziario i risultati sono meno entusiasmanti infatti la maggior parte dei Paesi Industrializzati, pur impegnandosi ad identificare i finanziamenti necessari al Piano strategico entro il 2012, non ha stanziato risorse nell’immediato; soltanto il Giappone ha già prespo un concreto impegno destinando due miliardi di dollari in tre anni per la costituzione di un fondo per i Paesi in via di sviluppo.

L’Accordo di Nagoya, anche se non si è riusciti a coprire con esso molti dei punti richiesti dagli scienziati per assicurare la conservazione delle biodiversità, è stato comunque considerato “storico” e accolto con fervido positivismo, in quanto rappresenta una buona premessa a cui necessariamente si dovranno far seguire azioni concrete coordinate a livello globale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *